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Vecchio 10-01-2006, 04.41.55   #1598
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LA POLITICA DEGLI AFFARI DEL SIGNOR BERLUSCONI

Dalle leggi tv ai condoni. Ecco come è diventato molto più ricco

DI MARCO TRAVAGLIO

«Berlusconi non ha mai fatto affari con la politica». Il sottosegretario Paolo Bonaiuti è molto spiritoso. O molto smemorato. O molto spudorato. Almeno quanto il suo principale, che giura: «Affari con la politica? Mai. Ho solo perso». Perché Berlusconi ha sempre fatto affari con la politica. Sia prima di entrarci, sia dopo.
L'assegno in bocca. Il Berlusconi palazzinaro è strettamente legato a politici nazionali e amministratori locali, con generosi ritocchi ai piani regolatori e addirittura alle rotte aeree per non disturbare la nascente Milano 2. Lo confesserà lui stesso, in un raro sprazzo di sincerità: «Dovevo fare lunghe file per seguire una pratica e poi passare da un ufficio all'altro con l'assegno in bocca, perchè così si usava nella pubblica amministrazione. Così ho smesso di costruire a Milano» (Ansa, 9 maggio 2003).

San Bettino. Negli anni 80 si comincia a parlare di una legge sulle tv e il tycoon della Fininvest trema: fortuna che nel 1983 va al governo il suo amico e socio Bettino Craxi. Il Cavaliere si lamenta col condirettore del Giornale Biazzi Vergani, perché Indro Montanelli attacca continuamente Bettino: «Sai, è quello che mi deve fare la legge sulle tv». Il 16 ottobre 1984 i telespettatori di Piemonte, Abruzzo e Lazio, al posto dei consueti programmi su Canale 5, Italia1 e Rete 4, trovano una scritta: «Per ordine del pretore è vietata la trasmissione in questa città del programmi di... regolarmente in onda nel resto d'Italia». Cos'è accaduto? I pretori Casalbore di Torino, Bettiol di Roma e Trifuoggi dell'Aquila hanno decretato la disattivazione degl'impianti che consentono alle tv regionali affiliate al Biscione di trasmettere in «interconnessione» su scala nazionale. L'«effetto diretta» è proibito da varie sentenze della Consulta. Ma -spiega Casalbore- «nulla vieta di mandare in onda programmi prodotti localmente». Nessun oscuramento. Ma la Fininvest decide di auto-oscurarsi per dare la colpa ai giudici. Il popolo dei Puffi, di Dallas e di Uccelli di Rovo, debitamente arruolato dalla propaganda Fininvest, si mobilita. Tempesta giornali, preture e Rai con telefonate di fuoco, mentre la Fininvest revoca l'autoscuramento per mandare in onda un «Costanzo Show-Speciale black out»: ore e ore di piagnisteo. Sua Emittenza, in pieno dramma, corre a piangere sulla spalla di Craxi, in partenza per una missione a Londra. Chiede un decreto urgente, ma il ministro delle Poste e Telecomunicazioni Antonio Gava non ci sta: «Sarebbe un errore agire in termini di conflitto con l'autorità giudiziaria, che interpreta le norme esistenti». Craxi però non sente ragioni e da Londra convoca un consiglio dei ministri straordinario per il 20 ottobre, anticipando il rientro in patria. Decreto «eccezionale e temporaneo», spiegano i socialisti, in attesa della legge sulle tv, data per imminente (la faranno nel 1990). Ma il 28 novembre la Camera, grazie ai franchi tiratori Dc, boccia il decreto come incostituzionale: 256 voti contro 236. Il 3 dicembre i pretori reiterano il sequestro degli impianti. Craxi li investe a male parole, poi impone un secondo decreto, ponendo la fiducia e minacciando le elezioni anticipate. Così Berlusconi la spunta, conservando il suo monopolio incostituzionale.

San Mammì. Nel '90 passa la legge Mammì, che dovrebbe riordinare il sistema tv con relativi tetti antitrust. La lobby berlusconiana riesce a ottenere che un antitrust che «fotografi» il trust del Cavaliere, il quale potrà tenersi le sue tre reti («legge Polaroid»). Per protesta la sinistra Dc ritira i suoi 5 ministri dal governo Andreotti, che li rimpiazza in una notte. La legge impone alla Fininvest due soli vincoli: cedere il Giornale e le quote oltre il 10% di Tele+1 e Tele+2. Berlusconi li aggira subito, passando il Giornale al fratello Paolo e intestando le quote eccedenti delle pay tv a vari prestanomi. Subito dopo la Mammì, tra il 1990 e il '91, la Fininvest versa tramite All Iberian su due conti svizzeri di Craxi circa 23 miliardi di lire. La Procura di Roma sospetta anche un giro di tangenti al ministero delle Poste in cambio - si sospetta - della Mammì e del piano frequenze. L'uomo-chiave, secondo l'accusa, è un giovanotto di 34 anni, Davide Giacalone, già segretario del ministro Oscar Mammì, considerato il vero autore della legge sull'emittenza e subito dopo ingaggiato alla Fininvest con una consulenza da 600 milioni. Finiscono sotto inchiesta anche Gianni Letta e Adriano Galliani: il pm Maria Cordova chiede di arrestarli entrambi, ma il gip Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa si astiene perchè Letta è un «amico di famiglia». Il capo dei gip Renato Squillante passa la pratica a un altro giudice, De Luca Comandini, che respinge entrambe le richieste di cattura. La Iannini verrà sorpresa da una microspia nel bar Tombini, il 21 gennaio '96, in compagnia di Squillante e di Vittorio Virga, avvocato di Giacalone, Letta e Paolo Berlusconi. Ora dirige il ministero della Giustizia. L'inchiesta finisce in un nulla di fatto. Vizzini e Mammì prosciolti dal Tribunale dei ministri. Letta e Galliani dal gip. Giacalone in parte assolto, in parte prescritto. Di recente Mammì ha raccontato una visita del Cavaliere alla vigilia della legge: «Scherzava, faceva battute, cercava di accattivarsi la mia simpatia. Poi mi si inginocchiò davanti e, baciandomi la mano, mi disse: “La prego, ministro, non rovini me e le mie famiglie!”».

Debiti addio. Quando entra in politica, Berlusconi è sull'orlo del fallimento: debiti per 6 mila miliardi. L'amministratore delegato Franco Tatò -racconterà Dell'Utri- ripeteva: «Cavaliere, dobbiamo portare i libri in tribunale». Lui invece porta l'azienda nello Stato. I debiti spariscono con la quotazione di Mediaset in Borsa nel '96 (autorizzata dalla Consob nonostante le centinaia di miliardi di fondi neri emersi dalle inchieste milanesi). L'azienda del Biscione, anche grazie al recupero di punti preziosi d'ascolto sulla declinante Rai berlusconiana, rifiorisce: in un'economia stagnante e in una congiuntura negativa in tutto il mondo per le aziende tv, fa eccezione proprio Mediaset, che nel 2004 ha toccato 500,2 milioni di utile netto (+35,3% rispetto al 2003) e un aumento della raccolta pubblicitaria del 9,1%: i migliori risultati dal '96 (da allora il titolo è lievitato del 187%, mentre in tutto il resto d'Europa le azioni del comparto tv scendevano del 4%). Anche il portafoglio del padrone va a gonfie vele: se nel '94 i suoi beni personali ammontavano a 3,1 miliardi di euro, oggi la sua famiglia si ritrova in tasca 9,6 miliardi. A ciò si aggiungono i guadagni in Borsa, grazie al continuo rialzo dei titoli delle società del premier (Mediaset, Mediolanum, Mondadori): nel solo 2003 si parla di 7.71 miliardi di euro (1,7 in più rispetto all'anno precedente: +28%).